Il colore delle foglie

Il colore delle foglie

Il colore delle foglie gioca un ruolo fondamentale in qualsiasi paesaggio, sia quello di un piccolo giardino o di un grande parco. Quello che cambia sono le dimensioni delle piante con cui organizziamo il giardino. Durante la bella stagione è la varietà e la tonalità di verde a fare la differenza, ma con l’autunno tutto cambia.

Gli alberi e i cespugli si vestono di una livrea nuova, più appariscente, dove le tinte del giallo e del rosso predominano sul verde e conferiscono alla stagione un carattere tutto suo, incredibilmente bello e variopinto. Disporre nel proprio giardino di una o più piante con foglie gialle o arancioni o rosse nobilita l’intero spazio, ormai povero di fiori, e sottolinea, in un naturale calendario biologico, l’evolversi delle stagioni e la bellezza della vita che si rinnova. Ma perché le foglie cambiano colore e cadono?

Il “dietro le quinte” dei colori autunnali

Quando le giornate si accorciano e le notti si fanno più fresche (già alla fine di agosto dunque) la pianta produce una sostanza, il sughero, che riduce la portata della linfa tra il ramo e le foglie. La linfa, che fino a quel momento veniva pompata con intensità nelle foglie, diminuisce e con essa la quantità di clorofilla. Il verde diventa meno intenso e la pianta si predispone ad immagazzinare energie prima dell’inverno.

La caduta delle foglie avvia un processo di riciclaggio come solo madre natura sa fare. Le foglie, marcendo nel terreno, restituiscono alla terra tutto quanto la pianta ha assorbito per produrle. In questo modo la pianta se ne potrà avvalere nella stagione successiva. Nella realtà, la pianta riesce a restituire alla terra più di quanto consuma perché a quanto assorbito dal terreno unisce anche quanto prodotto dall’attività di fotosintesi, ovvero dallo sfruttamento della luce. In questo modo un terreno abitato dalle piante diventa di anno in anno più fertile, creando i presupposti necessari per una ulteriore, costante espansione delle specie vegetali.

D’altronde, la terra, il terriccio, quello che ricopre la nuda crosta del nostro pianeta, è il risultato di questo processo nel corso di migliaia, milioni di anni. E questa terra, popolata da microbi, batteri, muffe e funghi microscopici, si comporta come un gigantesco organismo vivente, un grande laboratorio chimico che sfrutta il calore e l’umidità per trasformare continuamente la sostanza morta in nuovi elementi assimilabili dalle radici.

L’autunno è il presupposto di tutto questo: restituire alla terra e ai suoi “animaletti” quanto è stato sottratto prima perché vi sia nuovo materiale utile con cui costruire e far crescere la pianta.

È un sistema incredibilmente virtuoso che produce più di quanto consuma; è come se, alla fine di un viaggio, nella nostra vettura vi fosse più benzina di quando siamo partiti!

Giallo come...
La betulla, il pioppo, il castagno, il Gingko biloba
Giallo scuro come...
Il larice, il tiglio, l'acero di monte, il salice
Arancione come...
Il faggio, il pruno ornamentale, l'acero riccio, il liquidambar
Rosso acceso come
L'acero palmato "Fire Glow"
Rosso scuro come...
L'acero, la quercia, il sommato, il pero corvino
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E le piante sempreverdi?

Le piante sempreverdi usano un’altra strategia imposta dal loro luogo di origine: ricambiano le loro foglie di stagione in stagione mantenendo sempre attiva la fotosintesi. Le foglie sono ben diverse da quelle delle specie decidue: sono sottili come quelle delle conifere e protette da uno strato di cera; contengono anche una sostanza oleosa che ne impedisce il congelamento. Si sono evolute per resistere a basse temperature e assorbire per tutto l’anno la luce disponibile.

Oppure sono abituate a un’intensità di luce tale (come le piante di origine tropicale che coltiviamo in casa) da rendere funzionale l’attività di fotosintesi durante tutto l’anno. Le foglie in questi casi si ricambiano continuamente in modo da avere sempre degli organi in perfetta efficienza: ogni foglia vecchia viene sostituita contemporaneamente da una nuova più efficiente.

Perché cambiano colore prima di cadere?

Secondo le teorie più accreditate i pigmenti responsabili del colore giallo sono già presenti nelle foglie, sovrastati nella bella stagione dal colore verde della clorofilla. La diminuita presenza di questa lascia predominare il colore giallo in autunno. Sul perché invece le piante investano tanta energia nella produzione di antocianine (responsabili del colore rosso) è un mistero non ancora del tutto svelato.

Ci sono diverse teorie a spiegazione di questo comportamento. Secondo alcuni ricercatori questi pigmenti hanno una funzione antiossidante e aumentano la resistenza della pianta durante l’inverno. Secondo altri, le foglie rosse attirano gli uccelli, facilitando il trasporto dei semi ancora presenti. Infine, c’è chi afferma che il colore rosso contribuisce ad aumentare la temperatura della pianta, preservando le parti più sensibili dal freddo.

Il colore dipende dal terreno?

Secondo la ricercatrice Emily Habinck dell’Università del Nord Carolina (USA) gli alberi cambierebbero il colore delle loro foglie per ottenere da esse il massimo nutrimento possibile prima dell’inverno.

Dopo l’analisi di migliaia di piante poste su terreni con caratteristiche diverse, è giunta alla conclusione che le foglie appartenenti ad alberi che crescono su terreni fertili hanno una minore concentrazione di antocianine e rimangono perciò gialle, mentre le stesse specie cresciute su terreni poveri di elementi nutritivi, tendono a colorararsi di rosso. In pratica, afferma la ricerca, più una foglia è rossa e più facilmente è in grado di riciclare i propri nutrienti.

Ma in America sono più rosse

È accertato che in Canada e nelle regioni americane del Nord c’è una netta prevalenza di foglie autunnali rosse, mentre in Europa il primato spetta decisamente alle foglie gialle. Secondo alcuni ricercatori, le antocianine svolgono un’azione antiparassitaria (gli afidi, ad esempio, sono maggiormente attratti dal colore giallo).

Nell’evoluzione delle piante, durante l’ultima glaciazione, le piante americane si sono diffuse verso Sud alla ricerca di calore portandosi anche i parassiti. In Europa la presenza di catene montuose come le Alpi avrebbe impedito ai parassiti di scendere verso Sud. Mentre dunque le piante americane si sono evolute in una costante lotta contro i parassiti e quindi con una superiore produzione di antocianine, le piante europee “risparmiano” le energie limitando questa produzione.

Da qui la differente prevalente colorazione.

Come sopravvivono le piante senza foglie?

Perdendo le foglie la pianta interrompe la sua attività di fotosintesi grazie alla quale, lo ricordiamo, l’anidride carbonica (CO2) viene scissa in Carbonio (il mattoncino essenziale di qualsiasi forma vitale) e Ossigeno.

La pianta dunque sospende la sua attività? Entra in letargo come certi animali? Non esattamente. Le radici continuano a lavorare, sprofondandosi nel terreno e raccogliendo dalla terra umida le sostanze utili. È per questo che piantando ora un albero o un arbusto, sarà, a primavera, ben radicato e pronto a vegetare.

L’attività è rallentata, ma non assente. Ce ne accorgiamo osservando alcune piante, come la magnolia giapponese. Su questa pianta, tra le prime a fiorire a primavera, le gemme fiorifere sono già ben visibili: nel corso dell’inverno si gonfieranno trplicando di dimensioni finché si apriranno a primavera regalando quelle spendide fioriture biancho-rosa violacee che ci fanno dire di essere fuori dall’inverno. La linfa quindi scorre, lentamente, e la pianta, per così dire, lavora.

E per questo è importante, se abbiamo delle piante in vaso, fornire loro in autunno del concime come il letame o un organominerale a lenta cessione. Le radici possono così durante l’inverno rinforzarsi ed avere al momento opportuno tutte le sostanze utili per poter ricostruire la parte aerea.

Quante piante per un’aria migliore

Quante piante per un'aria migliore

Si dice, giustamente, che le piante ci forniscono l’ossigeno con cui respirare. Ma si tralascia di dire quanto ossigeno producono e dunque quante piante sono necessarie pro capite, per assicurarci l’ossigeno. Se provassimo a pensare a una risposta a livello planetario, il calcolo apparirebbe decisamente complicato. Vuoi perché la maggior parte dell’ossigeno proviene dall’attività svolta dalle piante acquatiche, vuoi perché si dovrebbe poter considerare la diffusione dell’ossigeno prodotto sull’intera atmosfera terrestre, considerando quindi anche le aree disabitate (che sono la maggior parte).

È però possibile fare una corretta  verifica su un volume più limitato, come quello di

 un’appartamento o di un palazzo.
È quanto ha fatto Kamal Meattle, un attivista ambientale indiano e CEO del Paharpur Business Center e Software Technology Incubator Park con sede a Nuova Delhi, in India.

Quante piante, quali piante?

Poniamo di chiuderci in un appartamento perfettamente sigillato, tale per cui non vi sia scambio di aria con l’esterno. Posto che per respirare consumiamo ossigeno -quando inspiriamo l’aria ne contiene il 21%, quando espiriamo l’aria ne contiene solo il 16%- va da sé che dopo qualche ora la percentuale di ossigeno decresce fino ad essere insufficiente.
Posto che le piante trasformano l’anidride carbonica (CO2) in ossigeno, o meglio, scindono l’anidride carbonica trattenendo il carbonio e rilasciando ossigeno (CO2 – fotosintesi – C+O2), quante piante sono necessarie in quell’ambiente per mantenerci in vita?
Gli esperimenti condotti da Meattle hanno dimostrato che basta avere in casa tre semplici piante verdi, comunissime e di basso costo, per rigenerare tutta l’aria che ci serve in un ambiente chiuso e restare in perfetta salute.
La ricerca individua anche le tre piante: si tratta della palma Areca, della
Sansevieria e del Pothos (Epipremnum).

Palma Areca
Sansevieria trifasciata
Pothos

La prima, la palma Areca, è fondamentale per la sua elevata attività di fotosintesi, quindi nella sua capacità di convertire l’anidride carbonica in ossigeno: ne servono quattro a testa, più o meno alte quanto noi.
La Sansevieria è la pianta che dovremmo tenere in camera da letto, perché converte la CO2 in ossigeno durante la notte: servono 6-8 piante a testa, alte non più di un metro.
Il Pothos, la cui velocità di crescita e capacità di mettere radici è nota a tutti, ha invece la capacità di ripulire l’aria dalla formaldeide e dalle molte sostanze chimiche volatili presenti nell’aria dei nostri appartamenti. Sono sostanze che derivano dai collanti usati nella fabbricazione dei mobili, dai detersivi, dalle vernici e persino da alcune confezioni alimentari.
Con queste tre piante si potrebbe vivere indisturbati in una casa sigillata senza aver bisogno di prelevare aria dall’esterno e restando in perfetta salute.

Si vive meglio

La ricerca di Kamal Meattle non si è limitata a constatare i risultati all’interno di un appartamento, ma si è spinta a una verifica all’interno di un vecchio palazzo di Delhi, di circa 4.600 mq abitato da circa 300 persone. Sono state installate 1.200 di queste piante e si è controllata la salute delle persone all’interno delle abitazioni. È emerso che la quantità di ossigeno nel sangue delle persone che soggiornavano per almeno dieci ore al giorno negli appartamenti di questo palazzo aumentava del 1%.
Oltre ad un’aria più salubre rispetto a qualsiasi altro palazzo di Nuova Dehli, si è constatata anche la decisa riduzione di fenomeni di irritazione agli occhi (-52%), problemi respiratori (-34%), cefalee (-24%), asma (-9%).
Inoltre, la migliore ossigenazione porta anche a un sensibile aumento della produttività del’individuo, grazie a una maggiore capacità di concentrazione e uno stato di salute genericamente migliore e un umore più positivo.
D’altronde lo abbiamo sempre saputo: quando facciamo una passeggiata in montagna ci sentiamo generalmente meglio e più attivi.

Per saperne di più:

Belle da morire

Piante belle...da morire

Molte piante che possiamo trovare nelle nostre passeggiate, per quanto belle, possono risultare pericolose, velenose se non addirittura mortali. L’importante è non mangiarle, ovviamente, ma ve ne sono anche alcune che è bene evitare anche di toccare perché fortemente urticanti. È bene allora saperle riconoscere ed evitarle, soprattutto se facciamo una passeggiata con dei bambini che, curiosi, possono avvicinare queste specie senza le dovute precauzioni.

Piccole informazioni di base

Nell’affrontare questo argomento, riteniamo doveroso precisare come la maggior parte delle piante contengano tossine, siano perciò virtualmente pericolose. Le piante cosiddette “edibili” sono solo una minima parte delle specie esistenti. E non sono edibili perché non abbiano tossine, ma solo perché il nostro organismo le tollera senza problemi. È il caso del prezzemolo, pianta abbondantemente usata e considerata sicura, benché il suo uso eccessivo dovrebbe essere evitato durante la gravidanza; il suo olio essenziale inoltre può danneggiare il fegato. 

La realtà è che tutte le piante, nel corso della loro evoluzione, hanno sviluppato sistemi, i più diversi, per proteggersi dagli erbivori che se ne volevano cibare o dai parassiti. Solo così hanno potuto moltiplicarsi e ritagliarsi una parte nel ciclo vitale. Alcune producono delle tossine, sono cioè velenose per chi le dovesse ingerire (non necessariamente mortali), altre sono urticanti (si pensi all’ortica), altre hanno sviluppato delle spine, altre ancora producono enzimi e profumi sgradevoli ai possibili predatori (pensiamo a quelle che noi chiamiamo aromatiche). Da notare che nessuno di questi sistemi è finalizzato alla morte del possibile predatore, ma solo come deterrente; le piante infatti non hanno alcun interese ad uccidere i possibili nemici. Fanno eccezione le piante carnivore che si cibano delle loro vittime, ma è un altro discorso.

Un esempio certamente interessante è rappresentato dai pomodori che, come tutte le Solanacee, sviluppa una tossina, la solanina, il cui scopo è quello di proteggere la bacca fino alla sua maturazione. I pomodori verdi sono ricchi di questa tossina e risultano perciò tossici (ma non ci uccidono); la tossina scompare quando le bacche sono mature e i semi che contengono possono essere tranquillamente ingeriti e dispersi. 

Le piante aromatiche come il basilico, il rosmarino, la maggiorana producono enzimi atti a tenere lontani taluni parassiti; piantate nell’orto biologico vicino ad altre piante, le difendono in modo del tutto naturale.

Una lancia spezzata per l’oleandro

Il tanto vituperato oleandro: quante abbiamo sentito dire “Non lo posso tenere perché ho dei bambini”. Additata come pianta velenosa per eccellenza, non è più tossica di tante altre. La sua fama le deriva dalle cronache che narrano che due soldati francesi siano morti dopo aver usato dei fusti di questa pianta come spiedo per la carne cotta sul fuoco. Una concentrazione di tossine, sicuramente molto elevata, trasmesse alla carne. Ma è l’unico caso che si conosca di avvelenamento da oleandro. 

E poi, qualcuno ha provato ad assaggiare una foglia? Oltre ad avere una consistenza affatto invitante, ha un sapore disgustoso. Ma se anche riuscissimo a mangiarne una foglia intera, ci verrebbe tutt’al più un gran mal di pancia. Sono ben altre le quantità necessarie a provocare la morte. Diverso può essere, a onor del vero, il caso in cui un animale domestico dovesse bere dell’acqua (magari nel sottovaso) in cui siano macerate delle foglie; in questo caso la concentrazione potrebbe essere sufficiente a produrre un esito letale. Ma anche in questo caso la letteratura non ci aiuta con prove certe.

Altri casi famosi

Tutte le piante hanno sviluppato delle difese; diversamente, non sarebbero giunte fino a noi, si sarebbero estinte prima. E così scopriamo che l’aglio produce un enzima che noi stessi sfruttiamo da sempre come vermifugo, il tabacco produce la nicotina per difendersi dai parassiti, la Stella di Natale (Poinsettia pulcherrima) ha nel suo fusto un liquido lattiginoso urticante. E si potrebbe andare avanti con un lungo elenco di essenze naturali spesso impiegate nella nostra farmacopea.

I pericoli

I pericoli maggiori vengono dall’ingestione di queste piante, per lo più perché scambiate per altre innocue, come avviene spesso per i funghi. Può capitare di mangiare delle bacche ritenendole buone, magari supportati dal fatto che molti uccelli se ne cibano.

Non meno frequenti però sono i casi in cui il contatto con la pianta o la sua linfa produca forme di irritazione sulla pelle. Se poi a questo si aggiunge la possibilità di fregarsi gli occhi o mettere le mani in bocca, ecco i problemi possono moltiplicarsi e il consulto con i Centro veleni possa rappresentare la migliore soluzione.

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Le piante più velenose

Piante velenose

Molte piante che possiamo trovare nelle nostre passeggiate, per quanto belle, possono risultare pericolose, velenose se non addirittura mortali. L’importante è non mangiarle, ovviamente, ma ve ne sono anche alcune che è bene evitare anche di toccare perché fortemente urticanti. È bene allora saperle riconoscere ed evitarle, soprattutto se facciamo una passeggiata con dei bambini che, curiosi, possono avvicinare queste specie senza le dovute precauzioni.

Alcune premesse necessarie

Nell’affrontare questo argomento, riteniamo doveroso precisare come la maggior parte delle piante contengano tossine, siano perciò virtualmente pericolose. Le piante cosiddette “edibili” sono solo una minima parte delle specie esistenti. E non sono edibili perché non abbiano tossine, ma solo perché il nostro organismo le tollera senza problemi. È il caso del prezzemolo, pianta abbondantemente usata e considerata sicura, benché il suo uso eccessivo dovrebbe essere evitato durante la gravidanza; il suo olio essenziale inoltre può danneggiare il fegato. 

La realtà è che tutte le piante, nel corso della loro evoluzione, hanno sviluppato sistemi, i più diversi, per proteggersi dagli erbivori che se ne volevano cibare o dai parassiti. Solo così hanno potuto moltiplicarsi e ritagliarsi una parte nel ciclo vitale. Alcune producono delle tossine, sono cioè velenose per chi le dovesse ingerire (non necessariamente mortali), altre sono urticanti (si pensi all’ortica), altre hanno sviluppato delle spine, altre ancora producono enzimi e profumi sgradevoli ai possibili predatori (pensiamo a quelle che noi chiamiamo aromatiche). Da notare che nessuno di questi sistemi è finalizzato alla morte del possibile predatore, ma solo come deterrente; le piante infatti non hanno alcun interese ad uccidere i possibili nemici. Fanno eccezione le piante carnivore che si cibano delle loro vittime, ma è un altro discorso.

Un esempio certamente interessante è rappresentato dai pomodori che, come tutte le Solanacee, sviluppa una tossina, la solanina, il cui scopo è quello di protggere la bacca fino alla sua maturazione. I pomodori verdi sono ricchi di questa tossina e risultano perciò tossici (ma non ci uccidono); la tossina scompare quando le bacche sono mature e i semi che contengono possono essere tranquillamente ingeriti e dispersi. 

Le piante aromatiche come il basilico, il rosmarino, la maggiorana producono enzimi atti a tenere lontani taluni parassiti; piantate nell’orto biologico vicino ad altre piante, le difendono in modo del tutto naturale.

Una lancia spezzata per l’oleandro

Il tanto vituperato oleandro: quante volte abbiamo sentito dire “Non lo posso tenere perché ho dei bambini”. Additata come pianta velenosa per eccellenza, non è più tossica di tante altre. La sua fama le deriva dalle cronache che narrano che due soldati francesi siano morti dopo aver usato dei fusti di questa pianta come spiedo per la carne cotta sul fuoco. Una concentrazione di tossine trasmesse alla carne sicuramente molto elevata. Ma è l’unico caso che si conosca di avvelenamento da oleandro. 

E poi, qualcuno ha provato ad assaggiare una foglia? Oltre ad avere una consistenza affatto invitante, ha un sapore disgustoso. Ma se anche riuscissimo a mangiarne una foglia intera, ci verrebbe tutt’al più un gran mal di pancia. Sono ben altre le quantità necessarie a provocare la morte. Diverso può essere, a onor del vero, il caso in cui un animale domestico dovesse bere dell’acqua (magari nel sottovaso) in cui siano macerate delle foglie; in questo caso la concentrazione potrebbe essere sufficiente a produrre un esito letale. Ma anche in questo caso la letteratura non ci aiuta con prove certe.

Altri casi famosi

Tutte le piante hanno sviluppato delle difese; diversamente, non sarebbero giunte fino a noi, si sarebbero estinte prima. E così scopriamo che l’aglio produce un enzima che noi stessi sfruttiamo da sempre come vermifugo, il tabacco produce la nicotina per difendersi dai parassiti, la Stella di Natale (Poinsettia pulcherrima) ha nel suo fusto un liquido lattiginoso urticante. E si potrebbe andare avanti con un lungo elenco di essenze naturali spesso impiegate nella nostra farmacopea.

I pericoli

I pericoli maggiori vengono dall’ingestione di queste piante, per lo più perché scambiate per altre innocue, come avviene spesso per i funghi. Può capitare di mangiare delle bacche ritenendole buone, magari supportati dal fatto che molti uccelli se ne cibano.

Non meno frequenti però sono i casi in cui il contatto con la pianta o la sua linfa produca forme di irritazione sulla pelle. Se poi a questo si aggiunge la possibilità di fregarsi gli occhi o mettere le mani in bocca, ecco che i problemi possono moltiplicarsi e il consulto con il Centro veleni possa rappresentare la migliore soluzione.

La Panace di Mantegazza

La più pericolosa, anche perché apparentemente innocua, è la Panace di Mantegazza, un’erbacea il cui nome botanico è Heracleum mantegazzianum. La sua pericolosità è tale da aver indotto alcune Regioni a diramare veri e propri allarmi, mettendo a disposizione un servizio di pronto intervento in caso di rilevamento. Raggiunge da 2 a 5 metri di altezza con grandi foglie ricche di aculei e infiorescenze a ombrello di colore bianco, larghe fino a 50 cm. Vista in un incolto, può indurre chiunque ad avvicinarsi per osservarla bene e magari coglierne un fiore. Tutta la pianta è tossica e la sua linfa provoca delle vere e proprie ustioni alla pelle con lesioni talvolta permanenti; come se non bastasse, i sintomi non sono immediati, ma si presentano normalmente dopo ventiquattr’ore. Staccarne un fiore, strappare una foglia o spezzarne il fusto non produce quindi un’immediata sensazione di dolore e di pericolo, con tutto quello che ne consegue. Se la linfa entra in contatto con gli occhi, può addirittura portare a cecità. Questa pianta, importata in Europa nel XIX secolo a scopo ornamentale, si è diffusa con notevole velocità, grazie all’elevata produzione di semi (circa 30.000) e alla loro alta germinabilità. 

Il tasso

Questa bella pianta dalla corteccia bruno o rossiccia e di un’altezza che può raggiungere i venti metri, è una conifera molto ornamentale che deve il suo nome al fatto che col suo legno si costruivano archi e frecce (taxus in greco significa freccia).

Le sue bacche sono di colore rosso scarlatto, abbondanti e decorative. Non s tratta di bacche vere e proprie, ma di escrescenze che proteggono il seme velenosissimo. La sua azione si esplica ai danni del cuore e può essere paralizzante nei confronti degli animali domestici che li dovessero ingerire. Gli uccelli si cibano della polpa di queste finte bacche e si dimostrano totalmente immuni alle tossine presenti. Il seme rimane intatto nel loro apparato e finisce con l’essere deposto lontano dalla pianta madre dove, se ci sono le condizioni adatte, può gerrminare e produrre una nuova pianta.

La Belladonna

Questa pianta (Atropa belladonna) è un’erbacea perenne che si sviluppa da un rizoma sotterraneo raggiungendo con i suoi fusti quasi 150 cm di altezza. Il suo nome botanico deriva da Atropo che, nella mitologia greca era una delle tre Moire, le divinità che presiedevano al destino dell’uomo: Clòto filava il filo della vita, Làchesi dispensava il destino, Atropo tagliava il filo della vita. Divinità presenti anche nella mitologia romana con il nome di Parche. Belladonna deriva invece dal fatto che nel Rinascimento le donne la usavano come collirio per ingrandire le pupille e apparire così più avvenenti.

È un fatto che questa pianta spontanea, nota fin dall’antichità, contiene l’atropina, un alcaloide che agisce direttamente sul sistema nervoso parasimpatico. La dilatazione delle pupille  è, ovviamente, il minore dei mali. L’assunzione dei suoi frutti, molto simili ai mirtilli e di sapore comunque gradevole, impone il rapido intervento di un Centro Antiveleni.

I sintomi vanno dalla diminuzione della sensibilità al delirio, fino alle convulsioni e alla morte. L’atropina, somministrata a dosi terapeutiche, è  in grado di inibire alcuni centri motori che controllano il tono muscolare e i movimenti e per questo è stata usata nel trattamento dei tremori e della rigidità nel morbo di Parkinson.

È usata in oculistica per espandere la pupilla e facilitare l’esame del fondo dell’occhio.

La Dulcamara

Appartiene alla famiglia delle Solanacee questo rampicante, noto anche come morella rampicante, che possiamo trovare nei boschi umidi e lungo i corsi d’acqua.

Il suo nome botanico è Solanum dulcamara e deve il suo nome al fatto che le foglie giovani, se tenute in bocca, hanno un sapore prima amaro e poi dolciastro. Ci può colpire con le sue fioriture pendenti, di colore viola, tra giugno e agosto, seguite da bacche pendule color rosso acceso.

Tutta la pianta è tossica e in particolar modo le bacche che, prima della completa maturazione, hanno la più alta concentrazione di tossine. Se ingerite, provocano nausea, diarrea e allucinazioni. L’intossicazione grave può portare a convulsioni, paralisi respiratoria e coma.

L’Aconito napello

L’Aconitum napellus è molto diffuso, soprattutto nelle zone alpine, ed è spesso coltivato anche nei giardini per la bellezza dei suoi fiori.

Forma infatti delle spighe fiorali alte fino a 150 cm e formate da numerosi fiori di colore blu-violetto cupo. Vive normalmente nei pascoli montani, su terreni ricchi di azoto, sui ghiaioni e tra le rocce a mezz’ombra, anche ad altitudini considerevoli. Questa pianta, presente comunemente nei pascoli alpini, ha rappresentato per molto tempo, non riconosciuta per la sua tossicità, un serio pericolo per il bestiame.

Infatti non perde tossicità nemmeno quando viene essiccata; tagliata insieme al foraggio e mescolata al fieno, era causa di avvelenamento per il bestiame.

La sua tossicità deriva dalla presenza dell’aconitina, un veleno molto potente che agisce rapidamente anche in piccole dosi. È tra le specie più velenose in Europa: bastano infatti 5 milligrammi per raggiungere la dose mortale. Se ingerito, i suoi sintomi compaiono dopo 10-20 minuti: formicolio alle mani e ai piedi, sudorazione e brividi, secchezza della bocca. Seguono alterazioni del ritmo cardiaco fino alla fibrillazione ventricolare e all’arresto respiratorio. Nei casi di avvelenamento più grave, questa tossina porta al coma e alla morte. L’aconitina inoltre può essere assorbita attraverso la pelle.

La mancinella

L’Hippomane mancinella è una pianta tropicale tipica del Centro America e diffusa soprattutto in Florida e ai Caraibi dove la sua presenza viene spesso segnalata da vistosi cartelli. Il suo nome deriva dal greco Hippos (cavallo) e Mania (follia) poiché  pare che facesse impazzire i cavalli che se ne cibavano.

Mancinella è invece termine di origine spagnola e significa “piccola mela”, ed è dovuto alla somiglianza del frutto e delle foglie a quelle del melo.

Ancora oggi in Spagna questa pianta è chiamata Manzanilla de la muerte, cioè mela della morte. I frutti, se ingeriti, possono produrre gonfiore alla gola e problemi respiratori e gastrointestinali.

Il vero problema sta nelle foglie e nei fusti ricchi di una potente tossina denominata “hippomane” che fa di questa pianta tra le più velenose al mondo. Meglio restarne a debita distanza perché il solo accidentale contatto con la sua resina biancastra può produrre estese irritazioni; la sua corteccia, se bruciata, rilascia sostanze nocive tanto potenti da provare la momentanea perdita della vista.

Il bosso

Impossibile immaginare un giardino all’italiana senza il bosso, tagliato, squadrato, basso a formare una bordura, più alto a creare siepi e labirinti. Il Buxus sempervirens è una pianta tossica in ogni sua parte. A renderla velenosa sono gli alcaloidi che contiene, in particolare concentrati nella corteccia e nelle foglie, pericolosi per uomini e animali. In realtà, come nel caso dell’oleandro, non sono citati casi di avvelenamento da bosso in uomini e bambini; unici casi segnalati sono relativi ad animali che possono essersi cibati delle sue fronde dopo una potatura, forse mescolate all’erba.

Questi alcaloidi possono provocare, nei casi più lievi, vomito, problemi di vario genere all’apparato digestivo e dermatiti. La buxina induce negli animali che si cibano delle foglie sintomi muscolari e neurologici, causa paralisi respiratoria e porta a conseguente morte.

Il vischio

Il vischio (Viscum album) è un piccolo arbusto sempreverde che vive spesso come parassita sugli alberi decidui. Se ne nota la presenza in inverno quando la pianta ospite perde le foglie, mentre il suo fogliame risulta allora ben visibile. 

Pianta considerata sacra nella cultura celtica insieme alla quercia, ha sempre mantenuto nelle civiltà antiche un alone di sacralità che diventa poi, nella tradizione popolare, simbolo di buon augurio e pianta capace di tenere lontane le disgrazie e le malattie.

Fiorisce all’inizio della primavera con fiori poco appariscenti, seguiti da piccole bacche sferiche biancastre dal contenuto appiccicoso (si veda nel linguaggio comune i termini invischiare e vischioso).

Queste bacche sono particolarmente pericolose per la concentrazione di velenosissime lecitine e tossine peptidiche, le viscotossine. Tre bacche possono essere letali per un bambino.

Lo stramonio

La Datura stramonium è una pianta erbacea annuale che può raggiungere due metri di altezza. È diffusa un po’ ovunque perché ama il clima temperato.

In Italia la possiamo trovare anche ai margini delle strade o nei prati incolti. La sua fioritura avviene tra luglio e agosto: i suoi fiori bianchi rimangono chiusi durante il giorno e si aprono invece di notte, emanando un intenso profumo che attira le farfalle notturne. Ne esiste anche una varietà con corolla violacea pallida e antere viola scuro, non priva di fascino. Chiamata anche “Erba del diavolo” o “Mela delle spine” (per lo strano frutto ricoperto da aculei) o “Noce velenosa”, appartiene alla famiglia delle Solanacee, come la patata, il pomodoro e la melanzana (ma anche come la Belladonna).

La Datura stramonium presenta un’elevata concentrazione di alcaloidi dannosi per il nostro organismo, quali la scopolamina e l’atropina. La concentrazione di queste tossine nei semi è tale da essere stata utilizzata in passato proprio per il suicido o per eliminare i nemici scomodi.

Queste tossine portano a rapida paralisi respiratoria; in dosi minori la pianta ha effetto allucinogeno e provoca gravi nausee e dolori addominali.

La luna e le piante

La luna e le piante

Il nostro satellite, dicono gli scienziati, nasce circa 4,6 miliardi di anni fa dalla collisione di un corpo celeste, chiamato Theia, contro il nostro pianeta. Dai frammenti di quell’immane disastro si forma la Luna che inizia a ruotare intorno alla Terra a una probabile distanza di 25.000 km. La sua orbita la porta ad allontanarsi dal nostro pianeta, poco alla volta, fino a raggiungere l’attuale distanza di 384.000 km; in realtà continua ad allontanarsi, di circa 38 mm all’anno.

Alla nascita, le sue dimensioni e la vicinanza, ne dovevano fare una presenza ben incombente sul pianeta: data la sua massa,  l’attrazione gravitazionale che generava doveva essere ben avvertibile, creando un ciclo che ogni giorno vedeva un’intensità massima e una minima.

La clorofilla, e quindi le prime forme vegetali, nascono un miliardo di anni dopo. Tutte le forme vitali nate successivamente sono nate e si sono evolute in questa costante e ritmica presenza dell’attrazione gravitazionale del satelite. Attrazione che, ancora oggi, è avvertibile nelle maree.

Non è perciò utopico pensare che i ritmi biologici si siano in qualche modo adattati all’influenza della Luna.

D’altronde, si dice, se l’attrazione del nostro satellite è tale da sollevare di svariati metri gli oceani, può a ragione influenzare il movimento di qualsiasi fluido, come la linfa, facilitandone la salita verso le foglie o, al contrario, trattenendola verso le radici.

La luna e il tempo

Ma la Luna non è solo un satelite e un fenomeno astronomico. Per molti secoli ha rappresentato il modo più pratico per contare il tempo e stabilire una data, sia pure approssimativa.

Le sue fasi, ben riconoscibili da chiunque, permettono di stabilire un intervallo di quindici giorni tra una luna piena e una luna nuova. I quarti offrono la possibilità di misurare una singola settimana.

Per questo tutti i calendari si basano sulle fasi lunari e, fin dall’inizio dell’agricoltura, gli uomini si sono serviti della Luna per stabilire il periodo di semina e di raccolta. Il movimento del satellite permetteva di stabilire la lunghezza di un periodo, da un minimo di una settimana a “molte lune”, di fissare delle festività (un esempio su tutte, la Pasqua), ma anche di valutare quando partire per nave (per evitare di giungere a uno stretto durante la luna nuova, nel buio assoluto), oppure effettuare delle manovre militari.

Benché la Luna rifletta solo il 10% della luce solare, la sua illuminazione è stata, fino all’invenzione della luce artificiale, l’unico modo per muoversi durante la notte.

Un po’ per necessità, un po’ per tradizione

La tradizione popolare ha esteso il ruolo della Luna e da punto di riferimento del tempo, si è vista trasformata in divinità capace di incidere sull’uomo e sul suo comportamento, responsabile del raccolto e della fertilità. La Luna crescente è oggi presente su molte bandiere nazionali: in Turchia la leggenda vuole che l’antiica Bisanzio fosse sotto la protezione della dea greca Artemide, il cui simbolo era uno spicchio di luna. Dall’impero ottomano il simbolo dello spicchio di luna si trasmise a molti Paesi islamici che oggi l’adottano. Troviamo la luna anche nelle bandiere di Paesi quali la Malesia, le Maldive o Singapore.

Da sempre, nel nostro Paese, la luna piena favorisce la pesca, perché, si dice, la sua luce attira i pesci in superficie. I contadini sostengono che il mosto vada messo nelle botti solo dopo il novilunio perché diventi vino senza inacidire.

Le credenze ereditate dal Medioevo vedono le notti di luna piena come indicate per le riunioni di streghe, ma anche per la trasformazione di taluni in lupi mannari.

E d’altromde il termine “lunatico” per indicare una persona dal comprtamento fuori dell’ordinario è stato coniato proprio mettendo in stretta correlazione il comportamento del nostro satellite con quello umano; Aristotele e Plinio il Vecchio sostenevano questa possibilità.

La scienza moderna smentisce qualsiasi correlazione tra la il nostro satellite e il nostro comportamento, affermando che la forza gravitazionale della Luna può alzare i mari, ma non influisce in alcun modo sui fluidi corporei, né dell’uomo, né delle piante.

E dunque cosa c’entra?

Da una parte abbiamo la tradizione popolare (antica oseremmo dire) che attribuisce alla Luna un’influenza diretta sulle colture; dall’altro abbiamo la scienza che afferma che non sia provata né l’azione della luce, né quella gravitazionale. Ma va detto che non ci sono noti degli studi scientifici specifici a riguardo. Ci piace ragionare a modo nostro.

Le fasi lunari

Le fasi lunari (luna nuova, luna piena e quarti) sono il risultato del movimento (detto rivoluzione) del satellite intorno alla Terra. La Luna impiega, per il contemporaneo spostamento della Terra sulla sua orbita, 29 giorni, 12 ore e 44 minuti per fare un intero giro intorno al pianeta; a causa di questo movimento, viene illuminata in modo diverso a seconda della sua posizione rispetto al Sole. Se colpita interamente, abbiamo una Luna piena,  se colpita in parte abbiamo illuminate solo delle porzioni più o meno grandi. La diversa illuminazione della Luna è quello che identifichiamo come fasi.

La luce riflessa dal sole sulla Luna è, al massimo, il 10%; si tratta di un livello di illuminazione troppo basso per attivare un vero processo di fotosintesi, anche se si sono nontati dei fenomeni di eliotropismo, ovvero di orientamento delle foglie di alcune piante verso la Luna piena. Difficile perciò dire che via sia possa essere una correlazione tra le fasi lunari e la crescota delle piante. È possibile però pensare che l’atavica abitudine di associare le operazioni agricole alle fasi lunari come unico calendario possibile, abbia potuto indurre questa associazione di idee, difficilmente dimostrabile.

Il fatto di seminare o potare con la luna crescente o calante è probabilmente da attribuire all’abitudine di farlo in detreminati periodi dell’anno che, in mancanza di un calendario solare come noi usiamo, non potevano che esser indicati in riferimento alle fasi lunari.

L’orizzonte

Altra cosa è considerare un altro movimento del satellite, denominato rivoluzione siderale. Si tratta di un movimento prodotto dal diverso piano di rotazione della luna rispetto alla Terra, cosa che fa sì che la Luna appaia ora alta, ora bassa sull’orizzonte. Questo movimento, il cui ciclo è di 27 giorni, 7 ore e 43 minuti, determina una maggiore o minore incidenza dell’attrazione del satellite sul pianeta. L’attrazione è massima quando la Luna è alta, a perpendicolo su una determinata zona; è minore quando invece il suo angolo di incidenza è maggiore.

La Luna dunque sale o scende sull’orizzonte con un ovimento regolare e costante: per circa 13 giorni la vediamo salire e per 13 giorni la vediamo scendere. E questo indipendentemente dalla sua illuminazione (che ha un ciclo diverso). Possiamo trovare la luna nuova alta in cielo, ma possiamo, qualche mese dopo, trovarla piena o solo a un quarto.

E se sulla luce riflessa dalla Luna ci sentiamo di poter scartare una possibile influenza sulle piante, diversamente ci viene da considerare pensando all’attrazione gravitazionale. 

Ovvero, è possibile che una forma vitale, sia essa vegetale o animale, che cresce e si evolve sotto la diretta influenza di un ciclo gravitazionale così articolato come quello reso possibile dall’interazione Terra-Luna (pensando poi alla distanza ridotta di un tempo del nostro satellite e quindi a una prsenza decisamente superiore) non abbia cercato di assecondare se non addirittura sfruttare questo meccanismo?

Pensiamo a tal proposito, per fare un esempio, a una persona che nasca e cresca su una nave: pensiamola costantemente ormeggiata in un porto, ma comunque assogettata a un costante rollio. Una persona, cresciuta in queste condizioni, non solo non avvertirebbe il rollio (anzi, avvertirebbe un certo fastidio se scendesse sulla terra ferma) ma lo asseconderebbe in modo naturale e lo sfrutterebbe per muoversi con naturalezza. Cosa che non avverrebbe a chi, nato e cresciuto sulla terra ferma, dovesse salire sulla stessa nave.

E allora riproponiamo la domanda: è possibile che le piante, nate ed evolute sotto questa pesante influenza, ne siano rimaste totalmente immuni?

Non siamo scienziati e non abbiamo prove a riguardo, ma ci piace esser possibilisti a riguardo e pensare che le piante abbiano in qualche modo adattato il loro modo di crescere alle condizioni ambientali e alle sue cicliche variazioni.

Crescente o ascendente

In agricoltura si parla di luna crescente e calante, riferendosi alle fasi, ma forse si dovrebbe parlare di luna ascendente o discendente, riferendosi alla sua posizione rispetto all’orizzonte.

Questo potrebbe allora avere un senso. Durante il periodo in cui dal punto più basso all’orizzonte sale verso il punto più alto la sua attrazione verso il terreno è crescente facilitando la risalita della linfa verso le foglie e le gemme. Questo rappresenta dunque il momento ideale per raccogliere gli ortaggi da foglia (come insalata e spinaci) e da frutto, come il pomodoro e la melanzana.

Quando per contro si abassa sull’orizzonte, a sua influenza gravitazionale diminuisce permettendo una maggiore concentrazione di elementi nelle radici. Per questo in luna discendente risulta pi  vantaggioso raccogliere gli ortaggi da radice (come carote e patate), ma anche trapiantare, ripicchettare, concimare, potare (le ferite si cicatrizzano più facilmente).

E non finisce qui

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