Piante velenose
Molte piante che possiamo trovare nelle nostre passeggiate, per quanto belle, possono risultare pericolose, velenose se non addirittura mortali. L’importante è non mangiarle, ovviamente, ma ve ne sono anche alcune che è bene evitare anche di toccare perché fortemente urticanti. È bene allora saperle riconoscere ed evitarle, soprattutto se facciamo una passeggiata con dei bambini che, curiosi, possono avvicinare queste specie senza le dovute precauzioni.
Alcune premesse necessarie
Nell’affrontare questo argomento, riteniamo doveroso precisare come la maggior parte delle piante contengano tossine, siano perciò virtualmente pericolose. Le piante cosiddette “edibili” sono solo una minima parte delle specie esistenti. E non sono edibili perché non abbiano tossine, ma solo perché il nostro organismo le tollera senza problemi. È il caso del prezzemolo, pianta abbondantemente usata e considerata sicura, benché il suo uso eccessivo dovrebbe essere evitato durante la gravidanza; il suo olio essenziale inoltre può danneggiare il fegato.
La realtà è che tutte le piante, nel corso della loro evoluzione, hanno sviluppato sistemi, i più diversi, per proteggersi dagli erbivori che se ne volevano cibare o dai parassiti. Solo così hanno potuto moltiplicarsi e ritagliarsi una parte nel ciclo vitale. Alcune producono delle tossine, sono cioè velenose per chi le dovesse ingerire (non necessariamente mortali), altre sono urticanti (si pensi all’ortica), altre hanno sviluppato delle spine, altre ancora producono enzimi e profumi sgradevoli ai possibili predatori (pensiamo a quelle che noi chiamiamo aromatiche). Da notare che nessuno di questi sistemi è finalizzato alla morte del possibile predatore, ma solo come deterrente; le piante infatti non hanno alcun interese ad uccidere i possibili nemici. Fanno eccezione le piante carnivore che si cibano delle loro vittime, ma è un altro discorso.
Un esempio certamente interessante è rappresentato dai pomodori che, come tutte le Solanacee, sviluppa una tossina, la solanina, il cui scopo è quello di protggere la bacca fino alla sua maturazione. I pomodori verdi sono ricchi di questa tossina e risultano perciò tossici (ma non ci uccidono); la tossina scompare quando le bacche sono mature e i semi che contengono possono essere tranquillamente ingeriti e dispersi.
Le piante aromatiche come il basilico, il rosmarino, la maggiorana producono enzimi atti a tenere lontani taluni parassiti; piantate nell’orto biologico vicino ad altre piante, le difendono in modo del tutto naturale.
Una lancia spezzata per l’oleandro
Il tanto vituperato oleandro: quante volte abbiamo sentito dire “Non lo possono tenere perché ho dei bambini”. Additata come pianta velenosa per eccellenza, non è più tossica di tante altre. La sua fama le deriva dalle cronache che narrano che due soldati francesi siano morti dopo aver usato dei fusti di questa pianta come spiedo per la carne cotta sul fuoco. Una concentrazione di tossine trasmesse alla carne sicuramente molto elevata. Ma è l’unico caso che si conosca di avvelenamento da oleandro.
E poi, qualcuno ha provato ad assaggiare una foglia? Oltre ad avere una consistenza affatto invitante, ha un sapore disgustoso. Ma se anche riuscissimo a mangiarne una foglia intera, ci verrebbe tutt’al più un gran mal di pancia. Sono ben altre le quantità necessarie a provocare la morte. Diverso può essere, a onor del vero, il caso in cui un animale domestico dovesse bere dell’acqua (magari nel sottovaso) in cui siano macerate delle foglie; in questo caso la concentrazione potrebbe essere sufficiente a produrre un esito letale. Ma anche in questo caso la letteratura non ci aiuta con prove certe.
Altri casi famosi
Tutte le piante hanno sviluppato delle difese; diversamente, non sarebbero giunte fino a noi, si sarebbero estinte prima. E così scopriamo che l’aglio produce un enzima che noi stessi sfruttiamo da sempre come vermifugo, il tabacco produce la nicotina per difendersi dai parassiti, la Stella di Natale (Poinsettia pulcherrima) ha nel suo fusto un liquido lattiginoso urticante. E si potrebbe andare avanti con un lungo elenco di essenze naturali spesso impiegate nella nostra farmacopea.
I pericoli
I pericoli maggiori vengono dall’ingestione di queste piante, per lo più perché scambiate per altre innocue, come avviene spesso per i funghi. Può capitare di mangiare delle bacche ritenendole buone, magari supportati dal fatto che molti uccelli se ne cibano.
Non meno frequenti però sono i casi in cui il contatto con la pianta o la sua linfa produca forme di irritazione sulla pelle. Se poi a questo si aggiunge la possibilità di fregarsi gli occhi o mettere le mani in bocca, ecco che i problemi possono moltiplicarsi e il consulto con il Centro veleni possa rappresentare la migliore soluzione.
La Panace di Mantegazza
La più pericolosa, anche perché apparentemente innocua, è la Panace di Mantegazza, un’erbacea il cui nome botanico è Heracleum mantegazzianum. La sua pericolosità è tale da aver indotto alcune Regioni a diramare veri e propri allarmi, mettendo a disposizione un servizio di pronto intervento in caso di rilevamento. Raggiunge da 2 a 5 metri di altezza con grandi foglie ricche di aculei e infiorescenze a ombrello di colore bianco, larghe fino a 50 cm. Vista in un incolto, può indurre chiunque ad avvicinarsi per osservarla bene e magari coglierne un fiore. Tutta la pianta è tossica e la sua linfa provoca delle vere e proprie ustioni alla pelle con lesioni talvolta permanenti; come se non bastasse, i sintomi non sono immediati, ma si presentano normalmente dopo ventiquattr’ore. Staccarne un fiore, strappare una foglia o spezzarne il fusto non produce quindi un’immediata sensazione di dolore e di pericolo, con tutto quello che ne consegue. Se la linfa entra in contatto con gli occhi, può addirittura portare a cecità. Questa pianta, importata in Europa nel XIX secolo a scopo ornamentale, si è diffusa con notevole velocità, grazie all’elevata produzione di semi (circa 30.000) e alla loro alta germinabilità.
Il tasso
Questa bella pianta dalla corteccia bruno o rossiccia e di un’altezza che può raggiungere i venti metri, è una conifera molto ornamentale che deve il suo nome al fatto che col suo legno si costruivano archi e frecce (taxus in greco significa freccia).
Le sue bacche sono di colore rosso scarlatto, abbondanti e decorative. Non s tratta di bacche vere e proprie, ma di escrescenze che proteggono il seme velenosissimo. La sua azione si esplica ai danni del cuore e può essere paralizzante nei confronti degli animali domestici che li dovessero ingerire. Gli uccelli si cibano della polpa di queste finte bacche e si dimostrano totalmente immuni alle tossine presenti. Il seme rimane intatto nel loro apparato e finisce con l’essere deposto lontano dalla pianta madre dove, se ci sono le condizioni adatte, può gerrminare e produrre una nuova pianta.
La Belladonna
Questa pianta (Atropa belladonna) è un’erbacea perenne che si sviluppa da un rizoma sotterraneo raggiungendo con i suoi fusti quasi 150 cm di altezza. Il suo nome botanico deriva da Atropo che, nella mitologia greca era una delle tre Moire, le divinità che presiedevano al destino dell’uomo: Clòto filava il filo della vita, Làchesi dispensava il destino, Atropo tagliava il filo della vita. Divinità presenti anche nella mitologia romana con il nome di Parche. Belladonna deriva invece dal fatto che nel Rinascimento le donne la usavano come collirio per ingrandire le pupille e apparire così più avvenenti.
È un fatto che questa pianta spontanea, nota fin dall’antichità, contiene l’atropina, un alcaloide che agisce direttamente sul sistema nervoso parasimpatico. La dilatazione delle pupille è, ovviamente, il minore dei mali. L’assunzione dei suoi frutti, molto simili ai mirtilli e di sapore comunque gradevole, impone il rapido intervento di un Centro Antiveleni.
I sintomi vanno dalla diminuzione della sensibilità al delirio, fino alle convulsioni e alla morte. L’atropina, somministrata a dosi terapeutiche, è in grado di inibire alcuni centri motori che controllano il tono muscolare e i movimenti e per questo è stata usata nel trattamento dei tremori e della rigidità nel morbo di Parkinson.
È usata in oculistica per espandere la pupilla e facilitare l’esame del fondo dell’occhio.
La Dulcamara
Appartiene alla famiglia delle Solanacee questo rampicante, noto anche come morella rampicante, che possiamo trovare nei boschi umidi e lungo i corsi d’acqua.
Il suo nome botanico è Solanum dulcamara e deve il suo nome al fatto che le foglie giovani, se tenute in bocca, hanno un sapore prima amaro e poi dolciastro. Ci può colpire con le sue fioriture pendenti, di colore viola, tra giugno e agosto, seguite da bacche pendule color rosso acceso.
Tutta la pianta è tossica e in particolar modo le bacche che, prima della completa maturazione, hanno la più alta concentrazione di tossine. Se ingerite, provocano nausea, diarrea e allucinazioni. L’intossicazione grave può portare a convulsioni, paralisi respiratoria e coma.
L’Aconito napello
L’Aconitum napellus è molto diffuso, soprattutto nelle zone alpine, ed è spesso coltivato anche nei giardini per la bellezza dei suoi fiori.
Forma infatti delle spighe fiorali alte fino a 150 cm e formate da numerosi fiori di colore blu-violetto cupo. Vive normalmente nei pascoli montani, su terreni ricchi di azoto, sui ghiaioni e tra le rocce a mezz’ombra, anche ad altitudini considerevoli. Questa pianta, presente comunemente nei pascoli alpini, ha rappresentato per molto tempo, non riconosciuta per la sua tossicità, un serio pericolo per il bestiame.
Infatti non perde tossicità nemmeno quando viene essiccata; tagliata insieme al foraggio e mescolata al fieno, era causa di avvelenamento per il bestiame.
La sua tossicità deriva dalla presenza dell’aconitina, un veleno molto potente che agisce rapidamente anche in piccole dosi. È tra le specie più velenose in Europa: bastano infatti 5 milligrammi per raggiungere la dose mortale. Se ingerito, i suoi sintomi compaiono dopo 10-20 minuti: formicolio alle mani e ai piedi, sudorazione e brividi, secchezza della bocca. Seguono alterazioni del ritmo cardiaco fino alla fibrillazione ventricolare e all’arresto respiratorio. Nei casi di avvelenamento più grave, questa tossina porta al coma e alla morte. L’aconitina inoltre può essere assorbita attraverso la pelle.
La mancinella
L’Hippomane mancinella è una pianta tropicale tipica del Centro America e diffusa soprattutto in Florida e ai Caraibi dove la sua presenza viene spesso segnalata da vistosi cartelli. Il suo nome deriva dal greco Hippos (cavallo) e Mania (follia) poiché pare che facesse impazzire i cavalli che se ne cibavano.
Mancinella è invece termine di origine spagnola e significa “piccola mela”, ed è dovuto alla somiglianza del frutto e delle foglie a quelle del melo.
Ancora oggi in Spagna questa pianta è chiamata Manzanilla de la muerte, cioè mela della morte. I frutti, se ingeriti, possono produrre gonfiore alla gola e problemi respiratori e gastrointestinali.
Il vero problema sta nelle foglie e nei fusti ricchi di una potente tossina denominata “hippomane” che fa di questa pianta tra le più velenose al mondo. Meglio restarne a debita distanza perché il solo accidentale contatto con la sua resina biancastra può produrre estese irritazioni; la sua corteccia, se bruciata, rilascia sostanze nocive tanto potenti da provare la momentanea perdita della vista.
Il bosso
Impossibile immaginare un giardino all’italiana senza il bosso, tagliato, squadrato, basso a formare una bordura, più alto a creare siepi e labirinti. Il Buxus sempervirens è una pianta tossica in ogni sua parte. A renderla velenosa sono gli alcaloidi che contiene, in particolare concentrati nella corteccia e nelle foglie, pericolosi per uomini e animali. In realtà, come nel caso dell’oleandro, non sono citati casi di avvelenamento da bosso in uomini e bambini; unici casi segnalati sono relativi ad animali che possono essersi cibati delle sue fronde dopo una potatura, forse mescolate all’erba.
Questi alcaloidi possono provocare, nei casi più lievi, vomito, problemi di vario genere all’apparato digestivo e dermatiti. La buxina induce negli animali che si cibano delle foglie sintomi muscolari e neurologici, causa paralisi respiratoria e porta a conseguente morte.
Il vischio
Il vischio (Viscum album) è un piccolo arbusto sempreverde che vive spesso come parassita sugli alberi decidui. Se ne nota la presenza in inverno quando la pianta ospite perde le foglie, mentre il suo fogliame risulta allora ben visibile.
Pianta considerata sacra nella cultura celtica insieme alla quercia, ha sempre mantenuto nelle civiltà antiche un alone di sacralità che diventa poi, nella tradizione popolare, simbolo di buon augurio e pianta capace di tenere lontane le disgrazie e le malattie.
Fiorisce all’inizio della primavera con fiori poco appariscenti, seguiti da piccole bacche sferiche biancastre dal contenuto appiccicoso (si veda nel linguaggio comune i termini invischiare e vischioso).
Queste bacche sono particolarmente pericolose per la concentrazione di velenosissime lecitine e tossine peptidiche, le viscotossine. Tre bacche possono essere letali per un bambino.
Lo stramonio
La Datura stramonium è una pianta erbacea annuale che può raggiungere due metri di altezza. È diffusa un po’ ovunque perché ama il clima temperato.
In Italia la possiamo trovare anche ai margini delle strade o nei prati incolti. La sua fioritura avviene tra luglio e agosto: i suoi fiori bianchi rimangono chiusi durante il giorno e si aprono invece di notte, emanando un intenso profumo che attira le farfalle notturne. Ne esiste anche una varietà con corolla violacea pallida e antere viola scuro, non priva di fascino. Chiamata anche “Erba del diavolo” o “Mela delle spine” (per lo strano frutto ricoperto da aculei) o “Noce velenosa”, appartiene alla famiglia delle Solanacee, come la patata, il pomodoro e la melanzana (ma anche come la Belladonna).
La Datura stramonium presenta un’elevata concentrazione di alcaloidi dannosi per il nostro organismo, quali la scopolamina e l’atropina. La concentrazione di queste tossine nei semi è tale da essere stata utilizzata in passato proprio per il suicido o per eliminare i nemici scomodi.
Queste tossine portano a rapida paralisi respiratoria; in dosi minori la pianta ha effetto allucinogeno e provoca gravi nausee e dolori addominali.